di Monica Zoppè, ricercatrice Cnr e attivista di Legambiente Pisa
L’11 marzo 2011 è una data che i giapponesi non dimenticheranno mai, come quelle del 6 e 9 agosto 1945, quando Hiroshima e Nagasaki furono distrutte dalle bombe atomiche statunitensi. A due anni di distanza dall’incidente alla centrale di Fukushima gli edifici sono stati riparati e i morti sepolti, ma la contaminazione radioattiva permane, invisibile quanto pericolosa. Nel dicembre scorso chi scrive ha avuto modo di visitare alcune di queste zone in occasione della conferenza globale “Nuclear free now!”, promossa da un pannello di ong giapponesi per organizzare le diverse anime no nuke del paese. Un evento organizzato in concomitanza con la Conferenza ministeriale di Fukushima sulla sicurezza nucleare, a cui hanno partecipato membri dell’Aiea insieme a personalità dell’industria nucleare e della politica globale.
Oggi, su oltre 50 centrali esistenti e su 18 attive al momento del disastro, soltanto una è stata riattivata con due reattori. È questo uno dei punti su cui più insistono gli antinuclearisti giapponesi: “Il paese ce l’ha fatta per quasi due anni senza la corrente delle centrali, non ne abbiamo bisogno”. In molti si sono attrezzati per ridurre i consumi di energia: dalla sostituzione delle lampadine all’installazione di tendine di paglia per oscurare le finestre e ridurre la necessità di condizionamento. Nel paese è così nata una nuova coscienza energetica, che ha portato una riduzione sensibile dei consumi. Molti giapponesi hanno aperto gli occhi e capito che il nucleare serve più agli affaristi che alla popolazione, e che il governo è più attento alle necessità delle lobby che non a quelle della gente. Quasi
tutti sono contrari all’energia atomica e in tanti guardano con invidia noi italiani che siamo riusciti a bandire il nucleare con i referendum del 1987 e del 2011.
Se per il Giappone sta iniziando un periodo di rinascita sociale, per le aree direttamente colpite la situazione è difficilissima, e richiede l’attenzione di tutti. Gli (ex) abitanti delle zone contaminate ancora non sanno se, e quando, potranno tornare alle loro case e alle loro occupazioni. Tokyo sta cercando di minimizzare il pericolo, alzando i limiti “tollerabili” di radioattività nella speranza che le persone tornino a casa. Ma la gente non si fida delle autorità: perché le centraline rilevano dati diversi rispetto a quelli misurati dalle organizzazioni indipendenti, e perché rifiutano di operare una sorveglianza sanitaria individuale, sostenendo che i livelli di radioattività sono bassi e senza rischi per la popolazione. Resta il fatto che i paesi sembrano set cinematografici abbandonati: campi nel riposo invernale, gruppi di case, orti, vasi di piante e fiori, bici parcheggiate... Solo che non c’è anima viva: tutto è come sospeso.
Siamo a Iitate, uno dei centri evacuati, sui monti che separano i paesi della costa dall’entroterra in cui siede la città di Fukushima. Durante il viaggio in pullman un giovane racconta il momento dell’esplosione, i giorni successivi e infine l’evacuazione. Iitate conta circa 6.300 persone e dista più di 30 km dalla centrale, ma si trovava sotto vento ed è stato colpito in pieno dalla nube radioattiva. I primi ad afferrare la situazione sono i più giovani, che cominciano a organizzarsi prima delle raccomandazioni del governo, arrivate una settimana dopo. Le autorità, racconta la guida, invitano gli abitanti ad allontanarsi dal paese restando però entro la provincia di Fukushima, in un raggio di un’ora
di spostamento. Molte famiglie, che vivevano in grandi case multi-generazionali, sono costrette a dividersi perché i rifugi sono nella gran parte dei casi singole stanze sparse in città. È una fortuna essere almeno vicini di casa. Sono inoltre molto frequenti casi in cui una persona, solitamente il padre, è rimasto in zona (nonostante il divieto di residenza molte aziende sono ancora attive), mentre moglie e figli sono in aree non contaminate. Questo ha sfaldato il tessuto sociale, sia all’interno delle famiglie che nelle comunità, in cui non c’è accordo su quale condotta tenere. Il governo ammette un risarcimento agli evacuati, ma solo quelli “riconosciuti”. E la situazione potrebbe cambiare a breve se alcune aree “decontaminate” saranno considerate abitabili.
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